Notturnale
Parlo con te nella notte senza vento. Nella notte d’aria ferma. Nella notte quieta e dolce. Spento è ogni rumore di un vivere a fatica. Spenti il berciare condominiale, le beghe, gli spropositi del cortile. Restano panni stesi e dimenticati. Resta il respiro e la possibilità del posare i pensieri sul comodino, fuori dalla mente. Parlo con te, per dirti qualcosa di questa notte. Così silenziosa e quieta. Qualcosa che ti tenga con me ancora un po’. Avrei voluto dirti “potremmo sdraiarci lì tra i fiori di zucca dell’orto”. E invece no, ché l’orto non l’ho mai saputo fare e inventare. Ti dico ascolta. E poi basta. Niente. Ti indico la luna con lo sguardo, perché non ti distragga il dito. Ti indico la ferita, la piaga in pieno petto, mostrandola. Ti dico che gli occhi lucidi e luminosi, sono il dono che ci fa il pianto, non dovremmo negarcelo. Parlo con te e tu mi rispondi “dormi”. Perché sei tu che vuoi dormire, dimenticare. Ma tutto è sempre a vista, ogni bene, ogni male. Anche se dormi il cielo si allarga sopra di te e forse non lascia speranza. A me non lascia altra speranza che continuare a cercarlo nelle notti che piango e tu ti volti a dormire. Perché ami la donna serena che scioglie i nodi, non quella che tesse e intreccia e scarnifica come fa il vento tra i rami dei boschi (eppure ami farci vacanza dentro, passo dopo passo, esclamando oh natura possente e libera, come puoi non vedere il suo complicato intreccio e i pericoli e il buio e la possibilità di perdersi, di prendere fuoco?). Ma va bene, dormi. Sogna se riesci. Forse in sogno ti arriverà il ricordo del piacere e dell’amore. Non che io speri d’essere io, almeno in sogno. Io che sono qui a contare quanto mi resta da vivere. Quanto voglio vivere quello che mi resta. E fremo. Parlo con te che dormi. Dormi. Io conto quanta vita resta. E quanto voglio vivere quella che resta. Sentirla cantare. Nelle pieghe doloranti di chi non ha che la strada come casa e solo quello. Nel passo dell’ambulante e dell’attore che tornano che è buio da ore. Nei passi di chi balla, in quelli di chi scappa. Di prigione, da un marito con la mazza chiodata al posto di una mano d’amore, dai sogni o dalla realtà. Io lo so che anche tu scappi. E anche io. Dalla pulizia ossessiva chiamata decoro. Una facciata barocca su un tendone logoro. Dalla casa di mia madre. Da quello che non ho saputo conservare. Eppure quanto sollievo mi dà sapere che tutto passa senza quasi lasciare segno, che nemmeno io sono importante per il mondo, che questo non ricordare, per quanto ci costringa a ripetere gli stessi meccanismi rovinosi (orrori che se ricordassimo non sarebbero più nemmeno pronunciabili), mi è la misura del mio niente. Ma anche del tuo. Di ogni umano accidente. Misuro il mio niente in questa notte che è la fine di un giorno di festa. Misuro il niente di ogni umano accidente. Il giorno è scivolato via nella sua fine. La fine del pranzo della domenica. La fine del giro dei parenti, la fine della gita fuori porta, la fine della messa, la fine del sesso perché c’è tempo. La fine dell’ozio degli altri. La meravigliosa fine. Misuro il mio niente in questa notte di un tempo sfuggito. È tutto tempo passato. Ora nessun grido, nessun ordine, nessuno che governa il destino di un altro. Nessuna arma spianata se non le domande del silenzio. Nessuna velleità di conquista se non quella mia, insoddisfatta, del tuo corpo. Nella notte, che ne è della storia e degli eventi? È un abbandono, è una resa. Non serve il fragore del viaggio, l’agitazione dell’andare per mare e monti. Serve il restarsi addosso, guardarsi. Conservare, muti, un dono di pace. In silenzio, parlo con te. Dormi. È l’ora in cui tutto è pace e silenzio. Il mondo è fermo. È fermo anche il vomito delle opinioni urlate come verità. Sono fermi i tweet, i post, i commenti sentenze, le affermazioni, le repliche, i pensieri e i corpi dissezionati e le classifiche, le categorie, il noi e il loro. Fermi i campi di battaglia zeppi di impotenza trasformata in calci. Tutto è pace e silenzio, posato in un angolo. Aspetto quest’ora come da bambina aspettavo il giorno di festa, la domenica a casa da scuola, l’inizio delle vacanze, il natale dei regali, dello stare svegli fino a tardi consentito. Aspetto quest’ora nel dolore del giorno che preme e toglie ogni leggerezza. Aspetto quest’ora per parlarti. Sei tu il verso di ogni notte, la bocca alla quale mi rivolgo. La bocca più di tutto mi piace perché sa riempirsi di dolcezza e mi stringe il cuore e la mano, come quando mia madre cantava e cucinava e piano la sua voce spariva quando tutto era pronto. Ti parlo. Dormi. Fino a quando, lentamente, tutto è pronto e di nuovo mi stringi il cuore. Si è fatto giorno.
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